Il corpo come strumento, come grido d’aiuto. In questa raccolta di poesie, emblematicamente intitolata Caro Corpo, l’autrice Francesca Titas si rivolge direttamente a quel sistema di carne e ossa che, per molti, diventa uno strumento, silenzioso e ignorato, di espressione di un dolore e di un disagio. Le poesie affrontano nello specifico la problematica dei disturbi alimentari, molto più diffusi di quanto ci si possa aspettare, spesso inascoltati e relegati a uno status di “serie B”, e soprattutto appannaggio perlopiù delle donne, per cui lo standard di bellezza a cui devono aspirare è spesso irraggiungibile. La poesia diventa denuncia, un dialogo con le proprie emozioni ma soprattutto una catarsi, per liberarsi da quel dolore che è alla radice delle grida mute del corpo.

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L’intervista

Chiara Saibene – La ringraziamo molto per averci concesso di leggere le sue poesie in anteprima. Ci può raccontare qualcosa di sé?

Francesca Titas – Grazie per questa opportunità! Mi chiamo Francesca, ho 23 anni e sto per laurearmi in Lettere Moderne. La letteratura, l’arte e la scrittura rappresentano la mia essenza più profonda, insieme a ogni libera forma di espressione creativa: credo di soffrire di una sorta di iperattività dell’anima, se così si può definire.

Le mie passioni mi hanno portata a fondare due progetti. Il primo è una pagina Instagram dedicata a Cesare Pavese, il mio scrittore preferito: si chiama @pavesefotografico. È nata quasi per caso, senza alcuna aspettativa, ma nel tempo si è trasformata in qualcosa di molto più grande. Oggi racchiude tutto ciò che desideravo esprimere: un messaggio quotidiano di resistenza al suicidio; per questo è “fotografico”, perché per me vivere significa vedere, o meglio accorgersi: che la vita è qui, nel nostro banale poter stare al mondo. In questo senso, considero la fotografia un esercizio di gratitudine.

Il secondo progetto è La Penna di Calliope, un collettivo no-profit che ho fondato insieme ad altri sei colleghi e amici. Da un banale gruppo WhatsApp in cui ci scambiavamo poesie e consigli di lettura, siamo diventati qualcosa di più: organizziamo eventi dedicati alla poesia, con l’intento non solo di incoraggiare e stimolare gli autori esordienti, ma anche di promuovere il contatto umano e l’integrazione sociale.

Quando, e per quale motivo, ha deciso di prendere in mano la penna e iniziare a scrivere?

Ho iniziato a scrivere nel momento in cui mi sono resa conto di non avere gli strumenti per comprendere pienamente la realtà che mi circondava e, ancor di più, il mio corpo, la mia anima, quel sentire che preferivo ignorare pur di non soffrire. Oggi non riesco più a concepire Francesca e la scrittura come due entità distinte, perché l’una nasce dall’altra, in un rapporto di reciproca simbiosi. Tutto il mio amore vive e perdura attraverso ciò che scrivo; ogni mio giorno si nutre di una poesia che mi attraversa la mente mentre sono alla guida, in cucina o sotto la doccia. «Questo dovrei proprio scriverlo», sì, è la frase che forse mi ripeto più spesso. In questo caso, di solito, si dice: «Hai il talento, ma hai anche l’ossessione?»

La sua raccolta di poesie Caro corpo è incentrata sulla tematica dei disturbi alimentari, è anzi una “lettera aperta” al proprio corpo. Può dirci qualcosa di più in merito?

Caro Corpo, come suggerisce il titolo, dapprima era una lettera che ho scritto grazie all’iniziativa di Animenta, un’associazione no-profit impegnata nella sensibilizzazione sui disturbi alimentari. Tempo dopo, ho deciso di dividere quella lettera in cinque parti, ciascuna delle quali avrebbe introdotto un capitolo del libro: Libertà, Fame, Apparenza, Lontananza, Colpa.

Si potrebbe dire, in modo semplicistico, che Caro Corpo parli di disturbi alimentari. Ma in realtà affronta qualcosa di più complesso e profondo, sensibilizzando su un’intera realtà di cui i problemi con il cibo rappresentano solo un aspetto. Sto parlando di un sistema più ampio che colpisce soprattutto le minoranze: stereotipi sociali, violenza fisica, sessuale e psicologica, discriminazione, pregiudizio, malasanità. Abbiamo un grosso problema con le minoranze, e continuiamo a fingere di non vederlo.

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Spesso il disturbo alimentare non è nemmeno percepito come tale, molte volte è considerato un “capriccio” o una “mancanza di sensibilità”. Cosa si potrebbe fare, secondo lei, per sensibilizzare le persone a questo problema?

La società attuale ci ostacola enormemente nella sensibilizzazione, perché c’è una tendenza a credere di sapere anche quando non si sa. Mai come oggi questa certezza si rivela pericolosa, perché il 90% della popolazione ha accesso immediato a una tastiera e può scrivere qualunque cosa. Così, i social media possono generare spesso valanghe di odio e disinformazione inarrestabili.

Spesso, ho definito i disturbi alimentari come «malattie del disamore»; non a caso, il mio primo romanzo s’intitolerà Disamorati. In effetti, il cambiamento potrebbe partire da qualcosa di semplice: l’amore. Potrebbe sembrare banale, ma il concetto di amore racchiude tutte le sfaccettature del bene: comprensione, fiducia, cura, condivisione, dialogo, rispetto, silenzio inteso come non-violenza. Sono tutte sfere che, nei disturbi alimentari, si sono sgretolate profondamente, sia nel rapporto con se stessi che nel rapporto con gli altri. Purtroppo, la concezione dei disturbi mentali come «capricci» o «mancanze di volontà» si fonda su uno stereotipo del dolore molto radicato a livello sociale. Viviamo in un’epoca abilissima nel «mostrare», in cui si crede solo a ciò che si vede con gli occhi, mentre con l’anima si riesce a vedere ben poco. Ed è proprio qui che entra in gioco il disamore.

È essenziale che tutti interiorizzino il concetto di pari dignità tra salute fisica e mentale. La stessa OMS definisce la salute come «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale», e non semplicemente come «assenza di malattia o infermità». Tuttavia, quando si soffre di un disturbo mentale, la società si aspetta che ci si comporti come se non lo si avesse. Si tende a considerarlo un problema superfluo o evitabile, e questa indifferenza si acuisce quando il disagio mentale non produce conseguenze visibili sul corpo. Più il corpo appare «sano», più si legittimano termini inappropriati come «impegno», «volontà» o «bravura». La verità è che nessuna bilancia può rivelare la presenza di un disturbo alimentare, né misurare il dolore. Le trasformazioni fisiche sono solo una conseguenza di una sofferenza molto più profonda, quella dell’anima, e non ne rispecchiano la gravità.

E cosa si può fare, sempre secondo la sua esperienza, per aiutare chi si sente con il cuore in frantumi e lo esprime tramite un disturbo “fisico”?

Se si pensa di soffrire di un disturbo alimentare, è fondamentale chiedere aiuto, indipendentemente dal proprio peso o dalla percezione della gravità del disagio. Se sospettiamo che qualcuno vicino a noi ne soffra, bisogna evitare di commentare cambiamenti di peso, criticare le scelte alimentari o banalizzare la sofferenza. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere di non poter risolvere il problema da soli, possiamo aiutare soltanto chiedendo aiuto a figure competenti. Questo vale non solo per familiari e amici, ma anche per figure professionali come personal trainer e biologi nutrizionisti. Troppo spesso, infatti, i primi si spingono oltre le loro competenze, mentre i secondi dimostrano una grave disinformazione in materia. Personalmente, se tre o quattro nutrizionisti (forse di più) fossero stati onesti sulla loro preparazione, avrei evitato molte ricadute. Il loro approccio errato non ha fatto altro che peggiorare il mio rapporto con il cibo. È necessario che un disturbo alimentare riceva un intervento multidisciplinare, gestito da un’equipe di professionisti specializzati.

Per chi non vive un disturbo alimentare da vicino, è altrettanto importante promuovere una società più rispettosa e non giudicante. Questo significa affrontare e smantellare il bias grassofobico che ancora influenza la nostra visione del mondo in modo dannoso. Il valore di una persona non dipende dal suo aspetto fisico: il peso non è un indicatore di pigrizia, mancanza di forza di volontà o insuccesso personale, né dello stato complessivo di salute.

Infine, non posso sottovalutare due grandi problemi: il bullismo/cyberbullismo e la divulgazione nociva. Per quanto riguarda il primo, dobbiamo smettere di insultare o commentare la forma dei corpi altrui. Il messaggio fondamentale della «body positive» è semplice: nessuno dovrebbe vergognarsi del proprio corpo. Questo non significa promuovere l’obesità, come molti credono erroneamente, ma riconoscere che ogni corpo è degno di esistere. Pensare di combattere l’obesità discriminando chi è obeso non solo è inutile, ma anche dannoso. Questo riguarda non solo i corpi grassi, ma tutte le minoranze: persone con disabilità, malattie della pelle o qualunque altra caratteristica immaginabile e non.

La divulgazione nociva, invece, include la promozione di diete ipocaloriche, metodi di dimagrimento, terrorismo alimentare e ideali irrealistici di benessere o forma fisica. È necessario che i nutrizionisti e i dietisti accettino di limitare i loro consigli esclusivamente ai loro pazienti, di cui conoscono l’anamnesi e le specifiche necessità. Fornire indicazioni generiche sui social media, rivolte a migliaia di persone diverse, è pericoloso. Ogni storia è unica, e ciò che funziona per uno potrebbe essere dannoso per un altro. Inoltre, demonizzare determinati alimenti o proporre schemi alimentari diffonde un rapporto disfunzionale con il cibo. Mangiare non è solo un insieme di nutrienti o calorie: è anche cultura, convivialità e sfizio.

Diritti di copyright di Francesca Titas

L’ossessione per la bellezza è una croce quasi tutta femminile, non tanto per vanto quanto per l’importanza che la società pone sull’aspetto estetico; così come il bodyshaming è una forma di bullismo che spesso e volentieri è indirizzata alle donne e che può assumere svariate facce, dall’insulto diretto a modalità di pressione psicologica più sottili. Il cambiamento dovrebbe arrivare, innanzitutto, dall’alto, dalla società, dall’immagine collettiva del femminile?

È innegabile che le donne siano colpite in misura maggiore dai disturbi alimentari, a causa di diversi fattori socioculturali, biologici e psicologici. L’ideale di bellezza femminile, promosso come simbolo di successo, amplifica una disparità di genere che oggi si manifesta subdolamente in forme come la misoginia, il gender gap e la cultura dello stupro. Media, moda, marketing e social network fortificano questi ideali, radicando l’idea che il valore sociale delle donne sia intrinsecamente legato alla loro apparenza. Come ho scritto in Caro Corpo, “la paura di essere brutte” e “di non essere donne” si intreccia con l’idea che le donne debbano essere attraenti, curate e “perfette” per ottenere riconoscimento sociale e sentirsi parte del mondo. Questa pressione si inserisce in una cultura ancora profondamente patriarcale, in cui spiccano la sessualizzazione del corpo femminile e il bisogno maschile di supremazia. Non sorprende, quindi, che le donne siano più frequentemente vittime di abusi fisici, psicologici o sessuali, esperienze che spesso sfociano in disturbi alimentari come meccanismi di coping.

In questo complesso sistema, il corpo di donna diventa un campo di battaglia: simbolo di croce e “salvezza”, un tentativo contraddittorio di affrontare le dinamiche di potere e al tempo stesso di ristabilirle. Negli ultimi anni, anche gli uomini sono soggetti a crescenti pressioni estetiche; tuttavia, per loro, le aspettative sociali si concentrano maggiormente su forza, carriera e abilità, e ciò li rende relativamente meno vulnerabili allo sviluppo di disturbi alimentari. Contrastare la diffusione di tali malattie e promuoverne la guarigione richiede una profonda rivoluzione culturale. La responsabilità, a mio avviso, ricade principalmente sullo Stato, le scuole e le famiglie. Tra i primi passi fondamentali vi sono l’introduzione di sessuologi e psicologi nelle scuole e nella pubblica sanità, e un deciso miglioramento del livello di cultura generale, oggi schiacciato da un mercato capitalistico che esalta il denaro e l’ignoranza a scapito dell’umanità.

La poesia e la scrittura possono rivelarsi utili strumenti di catarsi, come il suo Caro corpo?

La scrittura può certamente essere terapeutica e catartica. Tuttavia, credo che ciascuno di noi custodisca dentro di sé un personale miracolo con cui affrontare il dolore. Nel mio caso è stata la scrittura, ma la salvezza si manifesta nel mondo con infiniti volti: potrebbe essere un luogo, una passione, una professione, o una battaglia sociale. Qualunque esso sia, il mio consiglio è semplice: trovate il vostro miracolo e custoditelo con dedizione per tutta la vita.

Ha voglia di raccontarci come ha affrontato personalmente il suo percorso e la sua catarsi?

Il mio percorso di catarsi è stato davvero inconsapevole: ho scritto e presentato Caro Corpo nel pieno della malattia, facendomi portavoce di un amore per la vita e di una salvezza che, in quel momento, non credevo possibile. Ho narrato agli altri la parte giusta mentre io stessa vivevo nella parte sbagliata. Il mio paradosso è che la scrittura può sentire e riconoscere prima che io possa farlo nella pratica. Caro Corpo infonde un senso di speranza e guarigione che nella mia vita reale, mentre lo scrivevo, non esisteva. Mi nascondevo da tutti e pensavo che non sarei mai guarita. È come se le mie parole conoscessero, più di me stessa, il mio destino di amore e libertà.

Cosa l’ha aiutata personalmente?

Considerando che un disturbo alimentare si nutre del senso di colpa, del timore del giudizio e della vergogna di sé, ciò che più mi ha aiutato sono state le persone capaci di amarmi. Spesso si fraintende l’amore come pretesa, invasione o possesso; per me, invece, amare è un po’ come dire: «Forse non posso curare ciò che ti logora, ma resto qui, in silenzio, perché amorevolmente posso solo abbracciarti. E dacché non so, io non ti posso giudicare». Si ama davvero l’altro quando si accetta di non comprendere tutto, quando si è disposti a indietreggiare e a non attaccare. Alda Merini diceva: «Per amare non bisogna ricevere, bisogna dare».

Ha qualche consiglio da dare alle persone che soffrono di questi disturbi?

Il mio consiglio è: Non vi disamorate. È l’unico modo di vivere amando la vita e sentendo un poco meno il peso della propria anima e del proprio corpo. Mi piace diffondere il messaggio per cui tutto ruota intorno all’amore che entra in noi ed esce da noi.

Caro Corpo accompagna i lettori in un viaggio intimo e profondo dentro sé stessi, ripercorrendo le pretese sociali, culturali e familiari che agiscono indirettamente sul corpo, scatenando paure, ossessioni, prigionie. Il corpo si fa portavoce di una indiscutibile sensazione di non essere adeguati alla vita, di non essere meritevoli di amore da parte degli altri, di non essere abbastanza. L’opera è una lettera d’amore che ciascuno dovrebbe scriversi per ricordare che un corpo, in un’epoca che lo sballotta in cerca di continui modelli a cui corrispondere, risiede in un unico e puro emblema: la nostra casa.

Caro Corpo è disponibile in tutte le maggiori piattaforme online, da Feltrinelli ad Amazon fino a Hoepli e al sito web della casa editrice Dialoghi.

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