Lidia Poët

Avvocatessa e donna di grande cultura, Lidia Poët fu la primissima donna in Italia ad essere ufficialmente ammessa nell’Ordine degli avvocati: il suo lavoro spianò la strada all’apertura dell’avvocatura, lavoro tutto maschile, anche alle donne, e contribuì alla progettazione del diritto penitenziario moderno italiano.

Una formazione da docente

Lidia Poët nacque il 26 agosto 1855 a Perrero, in provincia di Torino, in una famiglia agiata; lì trascorse la sua infanzia fino a che la sua famiglia non si trasferì a Pinerolo, dove il fratello maggiore gestiva uno suo studio legale. Probabilmente l’attività del fratello contribuì ad accendere la sua curiosità per l’avvocatura; ma per una signorina della seconda metà dell’Ottocento le opzioni di lavoro erano ben poche. Lidia seguì la strada di molte altre ragazze di buona famiglia: frequentò una scuola per signorine in Svizzera, e poi proseguì gli studi per diventare docente di inglese, francese e tedesco nella scuola di primo grado.

Negli anni Settanta i suoi genitori morirono, e Lidia, rientrata a Pinerolo dove risiedeva il fratello, continuò a studiare per conseguire la licenza liceale. Avrebbe potuto fermarsi lì, e in realtà l’istruzione acquisita era già tanta: ma Lidia non si fermò e si iscrisse alla facoltà di Medicina, che abbandonò poco dopo, e infine si iscrisse a quella di Giurisprudenza.

L’Ordine degli Avvocati

Considerata la sua situazione e il suo tentativo di inserirsi in un mondo dominato dagli uomini, Lidia era molto interessata alla condizione della donna e alle contemporanee lotte per il diritto di voto e la parità di genere. Su quegli argomenti scrisse la sua tesi, “Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni”, che discusse quando si laureò nel giugno 1881. Ad assistere alla sua discussione c’era l’amico di famiglia Cesare Bartea, avvocato e politico, che l’accolse nel suo studio legale per due anni di praticantato. Alla fine del praticantato, Lidia si iscrisse all’esame di abilitazione per avvocati e lo superò con un voto di 45/50. Ora, mancava l’ultimo passo, quello dell’iscrizione all’Ordine degli avvocati: una vicenda che avrebbe fatto la storia.

Nel 1883 Lidia Poët inoltrò ufficialmente la sua richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. La richiesta suscitò scalpore e creò una faida tra due fazioni opposte: da un lato, gli oppositori, come l’avvocato Desiderato Chiaves e l’avvocato Federico Spantigati, dall’altro i favorevoli, tra cui il presidente dell’Ordine stesso, Saverio Francesco Vegezzi, uno dei promulgatori e sostenitori dello Statuto Albertino. Fu proprio quest’ultimo a sottolineare che, per legge, uomini e donne sono uguali. Vinsero i sostenitori, e il 9 agosto Lidia fu la prima avvocatessa a essere ammessa nell’Ordine degli Avvocati.

Ma la vicenda era lontana dall’essere finita. Nel novembre di quello stesso anno il procuratore generale del Regno si appellò contro l’iscrizione di Lidia Poët, e la Corte di Appello, accogliendo l’istanza, la fece cancellare dall’albo. L’avvocatessa allora si appellò alla Corte di Cassazione, che tuttavia, nell’aprile del 1884, confermò la decisione della Corte di Appello. La sentenza della Corte di Cassazione riassumeva una serie di argomentazioni più o meno legate alle leggi esistenti nonché molti stereotipi dell’epoca sulle donne e le loro capacità.

Da una parte, si sottolineava che la legge non proibiva esplicitamente alle donne lo svolgimento di pubblici uffici (come la professione di avvocato), il che doveva essere inteso come un’esclusione implicita; il silenzio della legge valeva come esclusione non come ammissione. Dall’altra parte, si ricorreva a tipici stereotipi, come l’impossibilità per una donna di svolgere un lavoro duro e potenzialmente improprio come quello dell’avvocato, a causa del suo carattere docile, morbido, emotivo, onesto e leggiadro; non da ultimo, le donne erano intellettualmente inferiori agli uomini e senza la costanza e l’efficienza necessari a sostenere un caso in tribunale. 

Il caso Poët

Il caso dell’avvocatessa suscitò accesi dibattiti sui giornali italiani ed esteri, raccogliendo, contro ogni previsione, molte opinioni a favore della donna. Lida Poët, però, rimase formalmente esclusa dall’Ordine degli Avvocati e, quindi, incapace di esercitare a tutti gli effetti la professione. Ciò non le impedì di aiutare il fratello avvocato e di impegnarsi nella difesa dei più deboli: donne, bambini ed emarginati. Grande sostenitrice della parità di genere e del diritto di voto alle donne, per quasi trent’anni collaborò ai Congressi Penitenziari Internazionali, contribuendo a progettare il moderno diritto penitenziario; paradossalmente non fu l’Italia, ma il governo francese, a riconoscere questo merito, nominandola Officier d’Académie.

A sostegno della causa femminile, inoltre, Lidia divenne un attivo membro del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI) per aprire l’accesso delle varie professioni alle donne. Grazie, tra le altre cose, al lavoro del CNDI, nel 1919 venne promulgata la legge Sacchi, con la quale le donne erano autorizzate ad accedere ai pubblici uffici (esclusi l’esercito, la politica e la magistratura) ed erano emancipate dall’autorizzazione maritale. Grazie alla legge Sacchi finalmente, nel 1920, Lidia Poët venne di nuovo ammessa all’Ordine degli Avvocati, diventando ufficialmente avvocatessa, anche se per anni lo era stata di fatto. Due anni dopo accettò l’incarico di presidente del Comitato pro voto donne di Torino.

Lidia Poët morì il 25 febbraio 1949, alla veneranda età di 93 anni. Nel 2021, praticamente cento anni dopo la sua ammissione ufficiale all’Ordine degli Avvocati, le venne dedicata una targa commemorativa nei giardini del Palazzo di Giustizia di Torino. 

A cura di Chiara.