Nata nel 1991 a Campi Salentina, in Puglia, Chiara Fina insegna Lettere. Ragazza molto riservata, rivela che sin da bambina scriveva e che il suo desiderio più grande un giorno sarebbe stato proprio quello di scrivere un romanzo tutto suo, frutto della sua immaginazione e del suo estro creativo. Nei ritagli di tempo concessi dal suo lavoro di docente, ha scritto un libro considerandola un’attività vitale e necessaria. Il suo romanzo si intitola L’estate brucia ancora e racconta la storia di un’amicizia iniziata in età adolescenziale e durata per sempre.

Il romanzo è molto avvincente e, con la tecnica del flashback, descrive la storia in un arco temporale vastissimo che spazia tra passato e presente. I personaggi principali sono Emma e Carlotta, due ragazze, poi donne, molto diverse tra loro di cui vengono fatte delle descrizioni caratteriali molto dettagliate. Il lettore viene avvolto nelle loro storie, immergendosi al punto da avere quasi l’impressione di conoscerle personalmente.

Vengono trattati vari temi: l’amicizia, il tema della violenza contro le donne, la famiglia. Il romanzo ci invita a riflettere molto attentamente su molte questioni che Chiara Fina affronta in maniera sublime e coraggiosa.

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L’intervista

Arstorica – Buongiorno Chiara, piacere di conoscerti. Tu sei una scrittrice molto giovane e di grande talento. Cosa significa scrivere per te e come ti sei avvicinata al mondo letterario?
Chiara Fina – Per me scrivere è un’esperienza necessaria, una tentazione costante, che mi assorbe ogni giorno.
Scrivo da quando ero piccola e mi mettevo a guardare la campagna di fronte alla periferia in cui sono cresciuta. Gli ulivi nodosi, che mi parevano facce e corpi di donne rimaste confinate nelle cortecce, le strade sterrate che non finivano mai e immaginavo portassero in luoghi oscuri. I muretti a secco, con i ragazzi che li scavalcavano.

Scrivendo, mi sento paga della mia vita e anche più libera. Sono il tipo di persona che tende a farsi ingabbiare dal lavoro, da alcuni ritmi precisi. La mia scrittura invece è formata da infinite vie di fuga. I miei personaggi fanno cose che io non farei mai, per vigliaccheria probabilmente, o forse per un eccessivo senso di responsabilità.

Comunque, grazie per avermi definita una “scrittrice molto giovane”. In realtà non credo di essere un’esordiente “giovane”, purtroppo; la maggior parte degli autori riesce a pubblicare il primo romanzo dopo la laurea, o anche prima. Io ci sono riuscita a 31 anni. Sono state tante le ragioni che non mi hanno permesso di tentare la strada della pubblicazione prima di oggi. Innanzitutto il mio carattere autocritico e abbastanza riservato, poco capace di godersi l’aspetto mondano che segue alla pubblicazione di un romanzo.

Inoltre, sono vissuta (e vivo tuttora) in un piccolo paese del Salento e, quando ho iniziato a scrivere questa storia, non conoscevo nessuno vicino a me che scrivesse a sua volta o che potesse aiutarmi a considerare la scrittura come una possibilità concreta. Perciò, ufficialmente, per molti anni ho nascosto il fatto che scrivessi. La mia famiglia, per esempio, ha saputo dell’esistenza di questo romanzo solo dopo un paio di anni. Scrivere mi sembrava un atto di grande superbia degno degli eroi greci che osavano sfidare gli dèi, un sogno impossibile da realizzare. Evidentemente mi sbagliavo, e la mia negazione era solo un modo per proteggermi da un eventuale fallimento. In realtà, poi scrivevo in segreto, nelle pause pranzo, nelle ore di buca di ogni scuola in cui ho insegnato. O nel tempo libero, la notte (con gli occhi che faticavano a restare aperti), la mattina presto, quando fuori dalla mia finestra albeggiava appena. Se ci ripenso adesso, mi faccio molta tenerezza. E capisco che non ho mai smesso di credere in quel sogno.

“L’estate brucia ancora” è il tuo romanzo d’esordio. Quanto tempo hai impiegato a scrivere questo lavoro, ti sei basata su fatti reali per impostare la storia?

L’ho scritto in due anni e mezzo, revisionando contemporaneamente e in modo costante. Non riesco ad andare avanti se l’ultima pagina non sembra avere raggiunto un’apparente compiutezza. Ho sempre bisogno di autoingannarmi: di credere di avere scritto una pagina che non necessiti di modifiche, anche se poi so perfettamente che cambierò tutto, o quasi, fino all’ultimo nanosecondo.

La trama del romanzo si basa su una mia esperienza personale, che ho traslato quel tanto che basta per farla diventare narrativa. Alla fine è rimasto molto poco di vero, ma certe volte mi sembra che la finzione non sia altro che una verità girata di profilo.

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Per descrivere i personaggi di Emma e Carlotta e il loro complesso rapporto d’amicizia hai avuto qualche fonte di ispirazione? Ci parli un po’ del rapporto che le legherà indissolubilmente l’una all’altra?

Di sicuro, all’interno del legame fra Emma e Carlotta è finito il mio modo di intendere i rapporti, e soprattutto l’amicizia. Trovo autentiche le relazioni che non sono “facili”. Mi piace circondarmi di persone diverse da me, a cui, anche nei disaccordi, mi lega comunque una sintonia di fondo. La parte che mi stuzzica è testare il rapporto per capire quanto oltre si può spingere.

Per questo le mie amicizie sono innanzitutto durevoli nel tempo (come nel caso delle mie due protagoniste): ne hanno superate tante di prove, e per stare dietro all’evoluzione del legame, senza rischiare di spezzarlo, occorrono molta pazienza e devozione verso il rapporto stesso. Nel caso di Emma e Carlotta, la loro devozione è assoluta perché, quando avevano rispettivamente tredici e quattordici anni, hanno vissuto un’esperienza che avrebbe potuto distruggere i loro equilibri, e invece accade qualcosa di sorprendente: le due ragazze si uniscono ancora di più “nell’inguine dei loro ricordi abissali”. Vivendo un’estate indimenticabile, nel bene e nel male.

La presenza ricorrente del tema della violenza e del trauma nel romanzo invita a una riflessione molto ampia sulla resilienza e sulla guarigione. Che tipo di messaggio hai voluto trasmettere ai tuoi lettori trattandolo?

Non avevo in mente un messaggio vero e proprio, anche se la storia parla di donne che subiscono abusi o violenze. E dei tentativi di riemergere da quel dolore. Si tratta del racconto di una vita piena di crepe e inesattezze che non hanno bisogno di essere nascoste o appianate con lo stucco, bensì di essere riscoperte e valorizzate.

Se ci rifletto bene, penso che il vero messaggio, che risuona in ogni pagina di questo romanzo, sia la volontà (che mi è affine) di dare un senso alle cose più complesse e inspiegabili che ci possono capitare.

In questo caso si tratta dell’incontro di Emma e Carlotta con il loro carnefice. Perché proprio loro due? Che cosa è andato storto?

A parte questo, non credo che la narrativa debba necessariamente inviare un messaggio, o avere uno scopo morale, propedeutico o utilitaristico. Ma ciò non esclude che il lettore possa trovare, in un romanzo, tutto ciò di cui ha bisogno.

Io rileggo spesso Non ti muovere, di Margaret Mazzantini. L’ho incontrato per la prima volta a diciott’anni, quel libro. Mia madre lo aveva comprato in un’edizione tascabile, credo insieme a una rivista. Sembra un cofanetto, la copertina è rigida e verde cimice, e mi ha sempre attirato la figura femminile che c’è stampata sopra: con i capelli neri, acconciati quasi come la principessa Leila, il vestito rosa da bambina e le scarpe rosse, che all’epoca mi parevano indicare qualcosa di scabroso.
Ogni tanto mia madre prendeva il libro e lo spostava, e io lo ritrovavo magicamente in cucina, vicino al vassoio con le tazze, o sul tavolo di cristallo in salotto. Qualche anno prima, mi aveva detto di non leggerlo perché era una storia per grandi, e io ero curiosissima ovviamente, ma ho ubbidito al divieto.

Sono ubbidiente quando voglio. Lo guardavo, accarezzavo il dorso con il dito indice, ma non lo aprivo mai, quel libro. Finché una sera, a diciott’anni, l’ho trovato in giro di nuovo, e quella volta ho ubbidito alla tentazione di leggere (in fondo ero maggiorenne). Ed è stata un’esperienza folgorante, quasi commovente. Ancora oggi non so perché, ma c’è qualcosa che mi tiene attaccata a quella storia (al di là dello stile che trovo sublime). Mi racconta di una verità che mi è familiare e di conforto, anche se non l’ho mai vissuta. Da autrice, posso solo sperare che il mio romanzo abbia, sui lettori, almeno un decimo dell’effetto che Non ti muovere ha avuto su di me.

Hai avuto delle difficoltà durante la stesura del romanzo? Se si, ce ne parli?

Non è stato semplice scrivere le prime cento pagine, ma questa è una cosa che mi accade spesso. Non sono una scrittrice metodica, non faccio scalette, non ipotizzo le tematiche di cui parlerò. Lascio che la storia mi si riveli piano, piano, mentre procedo a tentoni. Per errore. Devo pensare e ripensare alla psicologia dei personaggi fino a quando non ne posso più. Fino quasi a credere che siano vivi. Inoltre questo romanzo non è costruito in modo lineare, ma secondo un gioco d’incastri e di montaggio di scene, di intenzioni, di psicologie. Tutto è tenuto insieme attraverso il filo invisibile della suspense. Quindi all’inizio non è stato semplice capire come rendere concreta la storia che avevo in mente. Le altre trecento pagine sono arrivate in modo quasi naturale, in quattro mesi di lavoro, soprattutto durante il Lockdown del 2020.

La narrazione al passato e al presente è un elemento molto importante per raccontare la storia di Emma e Carlotta. Come sei riuscita a gestire la struttura temporale in modo tale da creare un equilibrio tra la suspense e la chiarezza narrativa?

Nessuno dei miei personaggi è davvero innocente, hanno tutti quanti una serie di colpe e un baglio di errori anche piuttosto ingombrante (malgrado alcune volte sbaglino a fin di bene). Ero sicura che la storia di Emma e Carlotta avesse bisogno di essere scoperta per gradi. Da qui la necessità di non rivelare tutto subito, e quindi di alternare il passato al presente. E il mistero della trama è diventato la vera polpa del romanzo.

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Emma è un personaggio dalle mille sfaccettature che vive la vita in maniera tragica. Ci descriveresti l’evoluzione del carattere di Emma nel corso della storia a a partire dall’adolescenza fino all’età adulta?

All’inizio del romanzo, Emma è adolescente. È figlia di genitori hippie (Azzurra e Paul Welch, due musicisti scapestrati che suonano musica salentina e che concepiscono la vita e la sessualità in modo molto libero). Emma ha i capelli rosso fuoco, la pelle chiarissima, ed è cresciuta in un ambiente familiare privo di regole. Possiede talmente tanta libertà che non sa nemmeno cosa farsene: le esce dalla bocca carnosa ogni volta che dice esattamente quello che pensa, pur sapendo di ferire, o dal corpo che rivela una sensualità asimmetrica e traboccante (anche più di quella che lei vorrebbe mostrare). I suoi genitori tendono a esibirla fin da piccola come fosse un fenomeno da circo, vantandosi di avere fatto una figlia così bella e intelligente. Sembra una specie di capolavoro, più che una ragazza. Perciò, per tutta la vita Emma si affanna per cercare di conquistare uno straccio di normalità e imperfezione. Da adulta infatti tenta una strada medio-borghese, con un lavoro da ufficio. Prova a dimenticarsi anche di Carlotta, ma alla fine tutto la riporta irrimediabilmente indietro, a quell’estate, e alla propria natura. Di pura lava.

Carlotta subisce una terribile violenza in età adolescenziale per mano di colui che definisci “alieno”. Come, nel corso della sua vita, riesce a superare il trauma cercando di trovare una forma di guarigione cercando di riprendere in mano la sua vita?

Dico solo che il personaggio di Carlotta è estremamente plastico. Si lascia modificare da quella terribile vicenda e ne diventa ossessionata; da qui il titolo del romanzo, a simboleggiare il ricordo agrodolce di un’estate che non smette mai di fare sentire sulla pelle la propria ustione. Allo stesso tempo credo che le donne in generale abbiano la capacità di modificare se stesse e il proprio contorno, se sono determinate a cambiarlo. Vorrei che fosse il lettore a scoprire come, e se, Carlotta riesce a salvarsi.

La comparsa nel corso della storia di Michele, il figlio di Emma, risveglia in Carlotta tanti ricordi del passato che in qualche modo sembravano sopiti. Come Carlotta affronta gli eventi dolorosi del suo passato che in qualche modo rievocano in lei il ricordo della sua grande amica Emma?

Carlotta è come un’archeologa. Ci sono dei vuoti nella sua memoria e, quando incontra Michele, alcuni dei tasselli che aveva perduto ritornano a galla. E lei li raccoglie insieme a quel ragazzo di vent’anni, arguto, con i capelli tinti di viola e un giacchetto di jeans troppo leggero per sopravvivere all’umido inverno del Salento, che come si dice dalle mie parti “ti trase ‘ntra le ossa” (“ti entra nelle ossa”). Michele sembra sprovvisto di tutto, è quasi impensabile possa essere di aiuto a Carlotta. Si è preso un anno sabatico dagli studi di biologia, ascolta musica che lei giudica senza spina dorsale, e però la sua comparsa rappresenterà la chiave di volta dell’intero romanzo.

Carlotta affronta i ricordi con grande dolore, certo, ma penso che la scoperta del passato ti doni sempre maggiore consapevolezza e quindi anche libertà. Come scritto sulla bandella del romanzo, Carlotta ricompone la propria storia a “mani nude, tassello dopo tassello. Scandagliando le acque chiare del passato alla ricerca di quella verità in cui a tredici anni non aveva osato addentrarsi”.

Parlando dei tuoi progetti futuri, hai in programma la scrittura di nuovi libri?

Ho un progetto in cantiere. Mi piacerebbe poter rivelare qualcosa, ma come dicevo prima ho la tendenza a cambiare tutto fino all’ultimo nanosecondo.