Perché l’adolescenza e la giovinezza femminili ammaliano le persone? Che cosa si nasconde dietro l’interesse per questi due aspetti della vita di una giovane donna? Sad Girl. La ragazza come teoria, scritto da Sara Marzullo, prende in esame proprio questi aspetti, interpretando la figura della sad girl come un prodotto della società patriarcale e delle sue implicazioni in ogni ambito della vita.

Sad Girl. La ragazza come teoria si interroga anche su cosa significhi per una donna l’idea di “prepararsi” e lo fa attraverso varie citazioni letterarie, cinematografiche e televisive. Analizza e decostruisce quella che Lauren Berlant chiamava la “cultura femminile” dall’Ottocento fino ai giorni nostri, per arrivare ad esaminare più a fondo la giovinezza femminile, che nel corso del tempo ha subito grandi cambiamenti sociali. Offrendo spunti molto interessanti, il libro indaga a fondo concetti come la girlhood aesthetic, l’immagine della jeune fille, il concetto di libertà nell’era del femminismo pop, e l’essere un “oggetto intercambiabile” nell’era della cultura dell’attenzione.

Diritti di copyright: l’immagine in copertina è di Umberto Chiodi, il progetto grafico di Paper Paper. La casa editrice 66thand2nd.

Arstorica – Buongiorno Sara, piacere di conoscerti. Quando hai iniziato a scrivere e come è nata l’idea di realizzare un libro come “Sad Girl. La ragazza come teoria”?

Sara Marzullo – È nato per opportunità e per accumulo, direi: per la newsletter Gua Sha, che avevo fondato con Francesco Pacifico qualche anno fa, mi era venuta l’idea di scrivere un saggio su una mia passeggera infatuazione per la musica di Olivia Rodrigo, per ragionare su come, a dispetto dell’età dei loro ascoltatori e ascoltatrici, le popstar restino attuali e completamente comprensibili, anche quando cantano esperienze radicate nell’adolescenza. Mentre lo scrivevo, ho pensato che avrei voluto esplorare in modo più ampio e sistematico la figura della ragazza, a un tempo ubiqua nel mondo culturale e mainstream, domandandomi se questa conquista di spazio pubblico equivalesse o no a un movimento emancipatorio.  

In che modo hai affrontato la sfida di capovolgere stereotipi culturali riguardanti la tristezza femminile e l’identità delle ragazze nel tuo lavoro?

L’ho fatto interrogando la mia stessa fascinazione ed ambivalenza: cosa trovavo interessante di questo profluvio di racconti della tristezza, di storie in prima persona, cosa si nascondeva dietro l’uso del sentimento come strumento di trasformazione del mondo? A cosa rispondeva il mio desiderio di aderire a una certa identità, a una certa persona pubblica o virtuale che fondava la propria esistenza sui temi della malinconia e della giovinezza? Partendo da questa traccia, il mio tentativo è stato quello di analizzare e decostruire quella che Lauren Berlant chiamava “la cultura femminile”, ossia quella cultura di massa che, a partire da metà Ottocento, sembra comunicare direttamente alle donne e che attribuisce loro una maggiore autorevolezza in materia di sentimento. E, insieme, volevo interrogare la fascinazione per la giovinezza – e specificamente quella femminile – per leggere non solo cosa simboleggia, ma anche come questi simboli modificano e sono modificati dai cambiamenti sociali. 

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Nel libro descrivi la “girlhood aesthetic” e come questa influenzi la cultura contemporanea. Che ruolo assume quest’ultima nella definizione dell’identità delle giovani donne oggi?

Più che influenzarla, la giovinezza femminile sembra surgere a simbolo contemporaneo; se la sua apparenza pare eternamente modificabile – rispondendo a una necessità di eterna flessibilità -, le sue caratterizzazioni in termini di innocenza e impotenza e, contemporaneamente, di assoluta resilienza di fronte agli ostacoli messi avanti dal mondo, rappresentano gli elementi del cittadino ideale, capace ossia di “risolvere” i propri conflitti da solo, contando sulle proprie forze, ma anche a suo agio con una posizione sociale marginale, che però viene premiata in termini di rappresentazione culturale e autorevolezza nel mondo dei sentimenti. Direi che è esattamente l’educazione sociale impartitaci dalla società, che rivaluta l’educazione di genere in termini pseudo-emancipatori. 

Nel tuo saggio hai citato la “jeune-fille” e l’eterna adolescenza delle pop star come temi. In che modo queste figure sono in grado di influenzare l’immagine e l’identità delle ragazze oggi?

La jeune-fille, come teorizzata da Tiqqun, non è un concetto sessuato, ma è caratterizzata dagli attributi ideali di Giovinezza e Femminilitudine – che corrispondono a quello che dicevo prima, ossia di agio nella posizione marginale nella società, in cui si viene integrati attraverso il consumo. Le jeune fille sono “cittadini ideali” nei termini per cui sono anche consumatori ideali, insomma – ed è chiaro come il mercato abbia messo al centro giovani e donne, in un movimento che poi non è realmente liberatorio (la libertà non è certo consumare ciò che si vuole). Le popstar incarnano questa figura: cantano i loro sentimenti, producono profitto a partire dal poco che hanno – un corpo e una storia, si lasciano insomma consumare e creano prodotti consumabili, rendendo la giovinezza e la femminilità desiderabili proprio per questa capacità di occupare l’attenzione e il mercato. Non influenzano certo solo le ragazze, ma l’intera cittadinanza, a dispetto di sesso ed età: chiunque sia stato anche solo un minuto sui social network, chiunque guardi un qualsiasi prodotto audiovisivo “tratto da una storia vera” ha percepito il potere di monetizzare il racconto di sé, e la costruzione di una immagine pubblica che funzioni (che sia consumabile, che attiri l’attenzione) è richiesta anche a chiunque svolga il proprio lavoro, a maggior ragione chi è un lavoratore autonomo.

Il tuo libro prende anche in esame il concetto di libertà nell’era del femminismo pop. Ci dici la tua opinione sul rapporto che si è creato tra femminismo, libertà individuale e le pressioni culturali sulle giovani donne?

Non penso di poterla riassumere in una risposta sola: direi che, per riprendere un concetto prezioso di Nancy Fraser, dobbiamo considerare che protezionismo e mercato libero non sono le uniche due scelte che abbiamo, che non dobbiamo scegliere tra vivere in una società che ci tutela con fare paternalistico, ossia dettandoci le regole del nostro comportamento in senso repressivo, e un mercato libero in cui dobbiamo pagare il prezzo della nostra libertà, perdendo ogni protezione. Il movimento femminista è un movimento emancipatorio, cioè deve essere il terzo vertice di un triangolo prodotto da protezionismo e mercato libero e allearsi con uno e l’altro, prestando attenzione a quando si alleano contro la nostra emancipazione. Sento che, per esempio, c’è un grande e fisiologico ritorno alle pratiche femministe di lotta collettiva, radicate soprattutto nel femminismo della seconda ondata, ma non possiamo semplicemente rievocarle, dobbiamo integrarle nella trasformazione individualista della società, e questo è il compito più difficile.  

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Un altro aspetto di cui hai parlato è quella sensazione di essere un “oggetto intercambiabile” nell’era della cultura dell’attenzione. In che modo pensi che le giovani donne siano in grado di preservare la propria autenticità e individualità in un contesto sociale dove ciò che conta prima di ogni cosa è l’immagine?

Per me non solo questo tema, ma quasi ogni tema del libro si applica ben al di là delle giovani donne: in un certo senso direi che la giovane donna è il cittadino e lavoratore ideale, consapevole della propria intercambiabilità e obsolescenza, e disposto a lottare per avere uno spazio, ma questo, come vedrai, è un sentimento che si applica ben al di là dell’essere ragazze. È il modo in cui occupiamo lo spazio nel mercato del lavoro: in modo precario, sperando di essere notati, di non essere sostituiti. Il contesto economico in cui viviamo non ha alcun interesse alla nostra individualità, a patto che non la possiamo monetizzare: puoi essere chi vuoi, basta che lunedì sei a lavoro, no? Personalmente direi che la risposta è voltare le spalle al mercato economico o almeno perdere ogni speranza di una emancipazione attraverso la partecipazione a questo; ma appunto è ben più complicato di così, e mi rifaccio a quella triangolazione di cui parlavo sopra. Le ragazze, per rispondere ulteriormente alla tua domanda, in questo contesto si trovano nel paradosso più difficile da sciogliere: non hanno mai ricevuto tanta attenzione, ma questo processo non solo non è realmente emancipatorio, ma ha anche un enorme costo personale. 

Dopo aver scritto un libro come “Sad Girl. La ragazza come teoria” pensi che scriverai altri libri di questo genere?

Sì, ma più nel senso della forma letteraria che ho scelto, che del tema.