Mahsa Amini
Mahsa Amini è una ragazza diventata simbolo delle proteste in Iran dopo essere stata arrestata e uccisa dalla polizia iraniana per aver indossato in modo errato l’hijab, il velo imposto alle donne musulmane.
La vita in breve
Mahsa Amini è nata il 21 settembre 1999 a Saqqez, nella provincia del Kurdistan, nell’Iran nordoccidentale, da una famiglia curda. Suo padre lavora presso un’organizzazione governativa, sua madre è invece casalinga; la famiglia ha anche un altro figlio. Mahsa veniva chiamata in famiglia con il suo nome curdo, Jina o Zhina. Ha frequentato la Taleghani Girls’ High School, diplomandosi nel 2018. Al momento della sua morte, il 16 settembre 2022, Mahsa era appena stata ammessa all’università di giurisprudenza.
La situazione in Iran: che cosa è successo
Dopo la rivoluzione iraniana nel 1979, il leader dell’Iran, Khomeini, ha imposto a tutte le donne l’obbligo di indossare il velo, l’hijab, sul luogo di lavoro e in tutti gli uffici pubblici. Negli anni successivi, si sono registrati molti episodi di intimidazione e violenza contro le donne che non indossavano l’hijab come stabilito dalla legge; nel 1983, è stato introdotto nel codice penale iraniano l’obbligo per le donne di indossare il velo in pubblico, pena altrimenti una condanna a 74 frustrate.
Tuttavia, nonostante le leggi, nel corso degli anni Novanta e poi duemila, le donne iraniane hanno adottato comportamenti sempre più “liberi” nei confronti del velo, tanto che il governo, attraverso il proprio braccio armato costituito dalla “polizia della moralità”, ha dovuto più volte lanciare campagne repressive nei confronti delle donne che si ribellavano al velo, o anche solo lo indossavano non correttamente.
Di solito, le donne arrestate in questo contesto venivano detenute in un apposito centro dove venivano “rieducate” e poi rilasciate solo dopo aver firmato un giuramento a rispettare le leggi in merito al velo. Nonostante il pugno di ferro del governo, però, la maggior parte della popolazione iraniana è contraria alle leggi sull’hijab; solo il 15% degli iraniani crede ancora nell’obbligo di indossare il velo.
Mahsa: da vittima a simbolo
È il 13 settembre 2022: Mahsa si è recata insieme alla sua famiglia a Teheran per fare visita al fratello minore. Mentre la famiglia sta per accedere alla Shahid Haghani Expressway, Mahsa viene fermata dalla polizia della moralità perché non stava indossando correttamente l’hijab: qualche ciocca di capelli le spuntava da sotto il velo. Mahsa viene prelevata dalla polizia e arrestata; la polizia dice al fratello, presente all’arresto, che la ragazza verrà rilasciata fra circa un’ora, dopo una breve reprimenda sul suo abbigliamento in un apposito centro di detenzione. Ma Mahsa non sarebbe più tornata a casa. Dure ore dopo l’arresto, Mahsa viene ricoverata all’ospedale Kasra, dove rimane in coma per due giorni, prima di morire il 16 settembre.
La polizia si è affrettata a insabbiare la vicenda: secondo loro, Mahsa ha avuto un attacco cardiaco mentre si trovava in prigione. Ma il cugino di Mahsa, un attivista politico in esilio, è il primo a rompere il silenzio e a denunciare pubblicamente il fatto ai media: Mahsa è stata selvaggiamente picchiata. La polizia, inoltre, tenta di diffamare la giovane, accusandola di attivismo politico e di avere una salute cagionevole, cosa che avrebbe scatenato l’infarto. Forti del sostegno dimostrato dal pubblico, però, la famiglia smentisce: Mahsa era una ragazza semplice e tranquilla, riservata, senza coinvolgimenti politici, ed era una ventiduenne sanissima.
Diversi testimoni, nonché le sue compagne di cella, hanno riportato che Mahsa è stata torturata e picchiata. Probabilmente le ferite infertele le hanno provocato un aneurisma o un qualche altro danno cerebrale: l’ospedale dove Mahsa è stata ricoverata pubblica su Instagram un post in cui afferma che la ragazza era già cerebralmente morta quando è arrivata al pronto soccorso. Il post è stato eliminato dalle autorità il 19 settembre, ma ormai la notizia si è diffusa a livello internazionale.
L’insabbiamento
Foto del cadavere di Mahsa, nonostante sia coperto dai veli funebri, mostrano diverse lesioni sulle gambe e sul viso, incompatibili con un semplice infarto. La polizia iraniana cerca ulteriormente di diffamare la ragazza pubblicando una presunta foto di Mahsa che sviene di fronte a un poliziotto: il padre Amjad Amini ha additato la foto come volutamente fuorviante e non corrispondente alla realtà di quanto successo. Amjad non ha nemmeno avuto il permesso di vedere in prima persona il rapporto dell’autopsia del cadavere della figlia. Alla richiesta di vedere le registrazioni delle telecamere di sorveglianza della stazione di polizia, gli è stato risposto che le telecamere erano fuori uso.
Nel corso di ottobre, si moltiplicano i botta e risposta tra la polizia e la famiglia Amini. La polizia cerca in tutti i modi di giustificare la morte della giovane ricollegandola a condizioni di salute pre-esistenti, mentre la famiglia tenta in tutti i modi di ottenere un vero rapporto autoptico della morte della figlia. Il 13 ottobre, più di 800 membri dell’Associazione iraniana dei medici hanno accusato il proprio presidente di aver assistito il governo nell’insabbiamento, avendo dichiarato che la morte di Mahsa non era attribuibile a lesioni quanto piuttosto ad anossia cerebrale.
La morte di Mahsa ha scatenato una serie di proteste a Teheran e poi nel resto del paese. Per tentare di arginarle, il governo ha imposto diversi blackout di internet per impedire la diffusione delle notizie sui social media: l’hashtag #MahsaAmini ha però raggiunto quota 80 milioni. Sono scoppiate altre proteste, definite “spontanee”, a favore del governo. Secondo i dati di Iran Human Rights, circa 185 persone sono rimaste uccise durante le proteste nate sull’onda della morte di Mahsa Amini.
A cura di Chiara.
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